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Gabriele Basilico sul narcisismo in fotografia e la lentezza dello sguardo

Dopo l’esperienza della DATAR al “momento decisivo”, al quale mi aveva abituato la lezione del reportage, avevo preferito, attraverso progressioni successive, la “lentezza dello sguardo”. Quasi a voler cogliere nell’immagine tutti i particolari, fino alla complessità delle cose che, a una minuzionsa osservazione, il paesaggio poteva restituire. Mi piace pensare di aver imparato quasi a scomparire, in quanto fotografo, di aver saputo mettermi da parte, rinunciando così al narcisismo e a una rappresentazione troppo soggettiva e spesso artificiosa in favore di una riproduzione solo apparentemente oggettiva della realtà e caratterizzata da un grande rispetto verso le cose. […]

Credo di poter dire che oggi ci siano due nuovi concetti che da allora sono diventati emblematici del mio rinnovato alfabeto fotografico: il senso dell’infinito come oggetto, come spazio osservato, che sta fuori e al di là della macchina fotografica, e che io non avevo mai rappresentato prima, e la pratica della contemplazione, che induceva uno sguardo lungo, uno sguardo superanalitico che, per vedere e rappresentare quello che mi stava davanti aveva bisogno di un tempo dilatatissimo. Ho scoperto “la lentezza dello sguardo”. […]

La fotografia rischia persino di essere qualcosa di estraneo, che infastidisce, ma che si usa perché è l’unico mezzo possibile per raccontare agli altri quello che si prova, si vede e si comprende. E in questo senso è anche documento: di quello che si è visto. […]

È su quello schema potente, classico, nel quale la composizione si affida – apparentemente docile – alle forme del mondo stesso e respinge ogni acrobazia formale, che ho costruito un nuovo modo di vedere che spero di non aver più abbandonato.

Gabriele Basilico

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