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Wim Wenders sulla bellezza delle immagini e l’importanza della narrazione

Come cineasta sono arrivato alla conclusione che le mie immagini hanno un’unica possibilità per non essere travolte da questo immenso flusso visivo di concorrenzialità e commercializzazione: devono narrare una storia. Nel mestiere del regista si cela il pericolo di produrre immagini fini a se stesse, e dai miei stessi errori ho imparato che una ‘bella immagine’ non ha alcun valore in sé, al contrario: una bella immagine può distruggere l’effetto e il funzionamento dell’intera struttura drammatica. Quando iniziai a fare cinema, se il pubblico lodava le mie immagini mi ritenevo estremamente lusingato, come se fosse il miglior plauso. Oggi, se qualcuno le loda penso piuttosto di avere sbagliato qualcosa nel film. E dai miei sbagli ho imparato che l’unico antidoto contro le immagíni autocelebrative è credere fermamente alla priorità della storia. Ogni immagine trae infatti una sua legittimità solo in rapporto a un personaggio della storia che narra; e dandole troppa importanza finisce per indebolire il personaggio. E una storia con personaggi deboli non ha alcuna forza. Solo la storia, l’insieme dei personaggi conferisce credibilità a ogni singolo fotogramma, ‘fonda una morale’, per esprimermi nel gergo di un artista.
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Berlino è una città particolare, perché durante la guerra ha subito lacerazioni devastanti, che la successiva divisione della città non ha certo guarito.
Berlino ha molte superfici libere. Si vedono case con pareti interamente vuote perché la casa a fianco non è stata ricostruita dopo il bombardamento. Gli sconfortanti muri laterali di questi palazzi sono chiamati pareti frangifuoco, e non esistono altrove. Sono come ferite, e a me la città piace per le sue ferite, che mi raccontano la sua storia molto meglio di qualsiasi libro o documento. Durante le riprese del Cielo sopra Berlino, mi accorsi che andavo sempre alla ricerca di queste superfici vuote, di queste terre di nessuno, perché avevo l’impressione che questa città potesse essere rappresentata molto meglio dalle zone vuote che da quelle occupate.
Quando c’è troppo da vedere, quando un’immagine è troppo piena o quando le immagini sono troppe non si vede più niente. Dal troppo si passa molto presto al nulla, come certo sapete. E conoscete anche un altro effetto: quando un’immagine è spoglia, povera, può risultare talmente espressiva da soddisfare interamente l’osservatore, e così dal vuoto si passa alla pienezza. Un cineasta è continuamente alle prese con questi problemi nella preparazione di ogni ripresa. E deve fare in modo di non lasciare nell’immagine ciò che intende catturare e mostrare al pubblico, perché tutto ciò che deve essere mostrato, e che l’immagine deve contenere, trova spiegazione in ciò che ne resta al di fuori.
A Berlino, dove io vivo, sono proprio gli spazi vuoti a consentire agli uomini di farsi un’immagine della città. Non solo perché permettono di abbracciare con lo sguardo intere superfici (a volte anche fino all’orizzonte, cosa di per sé piacevole in una città); bensì perché attraverso queste falle si può vedere il tempo che, in termini generali, è l’elemento che scandisce la storia. Quanto al cinema si possono fare considerazioni analoghe. Esistono film che sono come spazi chiusi: non lasciano il minimo spazio vuoto tra le singole immagini, non permettono di vedere ciò che è rimasto ‘fuori’ dal film, non consentono agli occhi e ai pensieri di muoversi liberamente. In questo genere di choc visivi lo spettatore non può riversare nulla di proprio, nessun sentírnento, nessuna esperienza. E si esce dal cinema con un senso di delusione. Solo i film che lasciano spazi vuoti tra le immagini raccontano una storia, ne sono convinto, perché una storia si produce anzitutto nella testa dello spettatore o dell’ascoltatore. E gli altri film, quelli a sistema chiuso, fingono soltanto di raccontare una vicenda. Seguono la ricetta della narrazione, ma usando ingredienti senza gusto.
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Un mio film in televisione rischia di essere martoriato da un continuo cambio di programmi col telecomando. Non mi resta quindi che sperare nella capacità di ogni inquadratura, o per lo meno di ogni scena, di emanare quella calma e quella leggerezza che differenzia il film dai prodotti puramente commerciali.
Non dobbiamo lasciarci contagiare dalla spietata concorrenza che oggi regna tra le immagini, né cercare di catturare a ogni costo l’attenzione dello spettatore. Credo piuttosto che bisogna distanziarsi da questo genere di concorrenzialità. Si può dare il buon esempio solo rimanendo fedeli a se stessi, non inseguendo a ogni costo il trend.
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Wim Wenders

Brano tratto dal libro L’atto di vedere di Wim Wenders
Per leggere l’intero paragrafo: www.archphoto.it/archives/634

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