Arte e rappresentazione del paesaggio
“L’immagine soppianta la natura, la sostituisce, si pone al suo posto, ed impedisce un rapporto reale con la cosa rappresentata, ciò che si impone a chi prende a considerare il rapporto tra immagine e natura nel mondo contemporaneo. Quel che dovrebbe mediare il contatto con la natura, si frappone tra essa e noi; quel che dovrebbe aiutarci a conoscerla, fa sì che non la conosciamo mai, e ne conosciamo soltanto i simulacri. Le immagini della natura hanno ucciso la natura, perché hanno reso impossibile, con la loro proliferazione e il loro scadimento, un’esperienza autentica del mondo naturale.
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Sono le società urbane e industriali ad avvertire la nostalgia per la bellezza della natura, e a cercare rifugio nelle rappresentazioni: la pittura di paesaggio nasce nelle città, e diventa il genere dominante nel secolo dell’industria, dell’Ottocento. Ma proprio a partire dall’Ottocento si assiste a una dilatazione inarrestabile di riproduzione della natura: panorami, diorami, fotografie, cartoline illustrate, fino ad arrivare ai nostri giorni in cui dépliants turistici, settimanali, televisione e cinema ci sommergono di immagini della natura, che sono però immagini stereotipate, patinate, incapaci di porci realmente in contatto con la natura stessa. La rappresentazione artistica della natura, cioè quella rappresentazione che produce non solo un’immagine, ma anche un’esperienza della natura rappresentata (di uno dei suoi paesaggi della montagna Sainte-Victoire Cézanne disse che doveva rendere “le parfum de marbre lontain”) scompare di fronte alla pura illustrazione dello spettacolo naturale, al luogo comune paesaggistico.
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Nel nostro rapporto con la natura, l’arte ha rinunziato a farci da guida, e ci ha lasciato in balia di immagini che non ci fanno conoscere nulla, perché servono soltanto a confermare quello che già crediamo di sapere. Il turista che gira con l’occhio incollato alla videocamera, che non guarda ciò che ha davanti agli occhi, ma lo filma per rivederlo a casa propria (un comportamento sempre più diffuso che, se già è molto sciocco quando si rivolge a bellezze artistiche, diventa veramente insensato quando è rivolto al paesaggio) è la prova provata di come l’immagine serva, oggi, a non farci vedere la natura.”
Questo brano tratto dal libro Filosofia e paesaggio di Paolo D’Angelo ha avuto su di me un impatto violento e mi ha spinto a considerare come, proprio in funzione di questi ragionamenti, io trovi interessante la produzione di una fotografia dell’ordinario, che ponga l’osservatore di fronte a un paesaggio solo in apparenza banale, ma che contenga in effetti il racconto di un luogo, i segni evidenti – e su cui spesso non ci soffermiamo – del passaggio dell’uomo in quel luogo e del suo modo di viverci, la storia di intere comunità che spesso è incisa nelle stratificazioni del paesaggio, nelle architetture che compongono paesi e città.
Trovo che non abbiano senso i virtuosismi, le composizioni complesse, le deformazioni del paesaggio, la post-produzione esasperata: forse è sufficiente prendere la fotocamera ed inquadrare il paesaggio in una maniera semplice. L’istinto sarà più intelligente della ragione e la fotografia racconterà molto di più di quello che noi avevamo visto.
Di questo e di tanto altro parleremo dal 18 al 20 marzo a Roma, al mio primo workshop per la Leica Akademie: Urban Landscape, riflessioni sulla rappresentazione del paesaggio.
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