Splendide fotografie vuote
“La cattura dell’immagine si rivela un grande piacere fisico e intellettuale” diceva Henri Cartier-Bresson. Forse proprio questo piacere, sia fisico che intellettuale, genera confusione.
Sia chiaro che la fotografia può essere un hobby, può essere usata come terapia, come strumento di ricerca o conoscenza di sé (un po’ come lo yoga o la psicanalisi). Nessuno di questi utilizzi può essere considerato deprecabile.
La confusione a cui faccio riferimento, infatti, ha a che fare con il narcisismo. Con l’idea di David Foster Wallace, quando afferma di aver scoperto che la disciplina più difficile è “cercare di partecipare al gioco senza farsi sopraffare dall’insicurezza, dalla vanità e dall’egocentrismo” e poi ancora che “la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre si nasconda nello scopo da cui è mosso il cuore di quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo (o la fotografia nel nostro caso n.d.r.). Ha qualcosa a che fare con l’amore. Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte di te che ama, invece di quella che vuole soltanto essere amata“.
Perché scattiamo fotografie? Perché proviamo un piacere nel farlo?
Perché sentiamo una forte connessione con il nostro soggetto e una forte motivazione – quasi un’ossessione – che ci porta a pensare che il nostro gesto sia indispensabile (e già se così fosse, sarebbe un’idea illusoria)?
Oppure fotografiamo perché andiamo alla ricerca di affermazione sociale, cioè di like o apprezzamenti dagli amici?
E a cosa serve la tecnica se non a ottenere il risultato che abbiamo in mente? Quanto senso ha concentrarsi su di essa?
Che utilità c’è nell’imparare a scattare come il nostro fotografo preferito? È importante in una prima fase, a mio avviso. Quella in cui si gioca, si sperimenta, si studia la tecnica, per l’appunto e si acquisisce padronanza. Un po’ come i pittori che, per imparare a dipingere, studiano l’anatomia e imparano la tecnica, copiando i dipinti dei grandi maestri.
In seguito, però serve trovare una propria strada, una motivazione personale, che parta proprio da qualcosa che per noi abbia senso rappresentare. Si potrebbe spendere la vita intera a inseguire una determinata capacità tecnica o uno stile preciso, per poi ottenere il risultato di scattare delle splendide fotografie vuote. Perché l’autore che abbiamo cercato ossessivamente di copiare per anni, scatta in un certo modo, lavora con alcuni soggetti – in generale fa quel tipo di fotografia – per le sue motivazioni personali e il suo bagaglio che, inevitabilmente, differiscono dalle nostre.
Cerchiamo di essere più chiari con un esempio: ammettiamo che adoriate Alex Webb o magari Saul Leiter. Trascorrete due o tre anni della vostra vita a cercare di imitare quelle fotografie. Alla fine di questo percorso cosa avrete ottenuto? Che senso avrà aver imparato a scattare foto identiche a quelle di un altro fotografo?
Io consiglio di accostare fin da subito una riflessione allo studio della tecnica: cosa conta davvero per me? Cosa mi interessa? Cosa voglio fotografare? Che storia voglio raccontare? Solo dedicandoci a qualcosa che davvero ci interessa, riusciremo a produrre risultati degni di nota!
Dopo aver risposto a queste prime domande, potremo chiederci: come voglio rappresentare? Che tecnica userò? Che linguaggio svilupperò? Che distanza dal soggetto sceglierò? Che posizione nel mondo prenderò? E tutte queste domande saranno strettamente legate al progetto iniziale, cioè a quello che conta davvero per ognuno di noi. Intendo dire che deciderete di avvicinarvi o allontanarvi, di usare una lunghezza focale o un’altra o magari anche una tecnica di ripresa o di post-produzione insolite… ma tutto in funzione delle esigenze del progetto.
Ovviamente è rischioso, anzi presuntuoso, soprattutto quando si comincia, decidere a tavolino. Piuttosto occorrerà eseguire diverse prove, oltre a delle ricerche per capire cosa già è stato fatto su un determinato tema e in che modo quelle idee e ricerche sono state sviluppate da altri autori. A tal proposito vi invito a leggere “Da cosa nasce cosa” di Bruno Munari, il quale fornisce proprio una metodologia operativa, utile ai designer ma anche ai fotografi a mio avviso. Ecco il link: https://amzn.to/3K3fNL3.
Personalmente sono interessato al concetto di verità. La fotografia non coincide mai alla verità, mi riferisco, invece, alla verità nell’approccio, all’onestà nella scelta del soggetto (per soggetto non intendo una persona ma il progetto a cui ci si dedica, quindi anche una serie di fotografie di palazzi o di alberi oppure mio figlio o il mio quartiere) e, di conseguenza, a tutte le scelte che ne conseguono: ho in mente questo progetto, quindi, nel rispetto del progetto stesso, farò determinate scelte.
In fotografia, infatti, si tratta sempre di definire un perimetro d’azione, una cornice di regole, all’interno delle quali muoversi liberamente. Sembra contraddittorio ma è un punto cruciale: è fondamentale essere liberi ma dentro un sistema ideato da noi stessi e strettamente connesso con quel determinato progetto su cui stiamo lavorando (e con quello soltanto).