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Gabriele Basilico sul paesaggio, la fotografia come documento e l’archivio del fotografo.

Viaggio in Italia è stata una specie di pausa di riflessione, un rivedere cose inanimante, rivedere degli spazi… vedere soprattutto dei luoghi intesi come ambiti all’interno della descrizione del paesaggio che erano anche delle periferie urbane o anche dei luoghi sotto casa, dei luoghi comuni e che erano in qualche modo la parte predominante del nostro paese… in cui viviamo. Quindi il coraggio di Viaggio in Italia è stato quello di aver fissato degli elementi di visione e di rappresentazione di un paesaggio che nessuno di noi conosceva prima ma che vedevamo tutti i giorni e quindi il coraggio di avergli dato immagine, avergli dato una forma, quindi mettere in forma il paese così com’è e che percorriamo da mattina a sera, al di là degli spazi spettacolari dei grandi monumenti, al di là delle fotografie di paesaggio tipo National Geographic, al di là della spettacolarità che faceva parte del mondo mediatico del paesaggio, e la riscoperta del luogo comune. E questa è stato una grande risorsa, secondo me, un punto di non ritorno verso una cultura che poi ha aperto un periodo lunghissimo di interesse verso la committenza pubblica del paesaggio, questo non va dimenticato: saranno stati più di dieci anni in cui comuni, enti pubblici italiani, ma anche stranieri, si sono dedicati al paesaggio nella fotografia, immaginando che la fotografia era un espediente, un modo d’indagine, uno strumento per mettere in contatto le persone col loro ambiente in un momento difficile della storia di questo ambiente, ecologicamente parlando e non solo. È come se il paesaggio rappresentasse il momento e il luogo di una riconciliazione. Come dire… noi fotografi continuiamo ad essere dei documentatori, la fotografia è un documento. In questo documento c’è tutto lo spazio per essere poeti e artisti, in un modo delicato, quasi un po’ nascosto e così facendo però continuiamo una missione che è quella della documentazione. Il paesaggio contemporaneo, come s’è detto prima… nella condizione in cui non si è mai visto… quindi una condizione un po’ del paesaggio “slabbrato”, come dire… quello della porta accanto, anche un po’ critico… un paesaggio difficile… noi lo fotografiamo con rispetto, come se fosse un paesaggio bello, un paesaggio che ha voglia di essere presente sulla scena della conoscenza del mondo e quindi con quell’atteggiamento etico ci mettiamo di fronte.

I fotografi hanno una ricchezza estrema che è l’archivio. L’archivio viene considerata generalmente come una cosa morta che giace, di cose già fatte. In realtà è una cosa viva perché se uno ha un grande archivio di volta in volta questo archivio conservato nel tempo informa e lancia delle storie nuove, nel senso di nuove aggregazioni, di nuovi sistemi di rappresentazione, di nuovi concepimenti… anche di feeling… di armonia. Perché la storia, evolvendo nel tempo, modifica moltissimo il nostro vissuto, il nostro punto di vista. Allora questo cambiamento del punto di vista fa in modo che l’archivio che è fatto di una sostanza di singole unità, di volta in volta cambia forma. Quindi guardare l’archivio vuol dire essere di fronte continuamente a delle nuove rappresentazioni del paesaggio o del lavoro che appartiene e che conforma questo paesaggio visivo.

Vedi l’intervista completa sul sito arte.rai.it.

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