Storie di aquile, bellezza e stile in fotografia
Spesso penso che nessuna delle operazioni legate alla fotografia abbia un senso. Ho l’impressione che nessun progetto aggiunga nulla alla storia di un’arte che sembra aver già espresso tutte le sue potenzialità. Ogni cosa mi sembra di averla già conosciuta, nulla più mi stupisce o mi incanta, trovo tutto noioso e insensato. Il mio stesso lavoro, i miei pensieri, questo articolo, non aggiungono nulla di nuovo o interessante. Ho iniziato a scriverlo pensando al fatto che spesso, riguardando una mia fotografia, mi accorgo di non aver avuto piena coscienza del suo contenuto durante lo scatto. A volte è distrazione, altre volte semplicemente il nostro istinto è più intelligente di noi ma la questione rilevante riguarda la possibilità di prendere visione più volte di una rappresentazione della realtà, avendo modo di rallentare lo sguardo e aumentare la coscienza rispetto a quello che abbiamo di fronte a noi. Quindi si passa dalla ricerca di una fotografia più lenta – concetto divenuto essenziale per me – alla possibilità di una fruizione ancora più approfondita. Mentre pensavo a questo mi venivano in mente le parole di Luigi Ghirri che già diversi decenni fa considerava la fotografia come uno spazio di osservazione della realtà che ci permette ancora di vedere le cose.
Non sto pensando nulla di nuovo per l’appunto e Ghirri non è stato il primo né l’unico ad esprimere simili idee ma tornando al primo pensiero espresso in questo articolo, vorrei fare qualche esempio che renda ancora più chiaro cosa intendo dire. Faccio riferimento a fotografi del calibro di Sebastião Salgado, di fronte alle cui foto io non potrei mai dire che non siano belle e proprio questo mi inquieta. Mi rendo conto di aver tirato in ballo uno dei mostri sacri della fotografia e non intendo in alcun modo sminuire il lavoro di un uomo che ha dedicato tutta la vita ad un progetto con risultati eccelsi. Quello che intendo affermare invece è che le sue fotografie costituiscono ormai una sorta di immaginario a cui attingere e sono talmente belle da apparire quasi scontate e in alcuni casi addirittura patinate. Ripeto io non sono nessuno per giudicare personaggi del calibro di Salgado ma trovo che la bellezza non sia il valore principale in fotografia. La bellezza è alla portata di tutti, come ho già scritto qui. La fotografia ha il compito di porre domande, generare discussioni e confronti e quindi non serve che sia bella a tutti i costi, anzi la bellezza potrebbe essere un elemento di distrazione, potrebbe far concentrare l’attenzione sul fattore estetico in sé o sulle capacità del fotografo piuttosto che sul contenuto. La composizione non è un esercizio di stile ma semplicemente una parte del bagaglio tecnico di ciascun fotografo, da usare al fine di veicolare al meglio il proprio messaggio. Una foto composta male è una foto in cui non arriva quello che il fotografo voleva mostrare. Non si tratta di estetica fine a se stessa ma di comunicazione. In un mondo in cui la possibilità di produrre belle immagini è alla portata di tutti, la bellezza mi sembra immediatamente ruffiana, tranne quando diventa poesia…
La fotografia in bianco e nero non è solo una questione di stile, si tratta di sviluppare una visione. Di recente mi è capitato di trovarmi ad una mostra di fotografia naturalistica e mentre mi aggiravo tra orsi, fiumi e montagne, il mio sguardo è stato attratto dalla foto di un’aquila e ho dovuto farle una foto col mio smartphone. È incredibile vedere la foto prima e dopo la post-produzione ma non è di post-produzione che si tratta, io la foto l’ho vista in bianco e nero con quella gamma ridotta di grigi, tant’è che la fase di ritocco è durata circa 10 secondi ed è stata elaborata direttamente su Instagram, al fine di far somigliare quanto più possibile l’immagine alla mia visione. Si tratta di istinto e visualizzazione, proprio alla luce del fatto che magari ci si sta dedicando a sviluppare un certo tipo di linguaggio in un periodo della propria vita. Oggi però arrivo addirittura a domandarmi che senso abbia esprimersi in bianco e nero se non si usano pellicole. Da un certo punto di vista trovo ruffiano anche decidere di usare delle toy camera appositamente per ottenere un certo tipo di risultato ma almeno è più onesto. La fotografia in bianco e nero consente un’astrazione maggiore rispetto al colore e proprio per questo risulta più interessante a volte ma proprio nel tentativo di avvicinarsi ad una visione più neutra e meno filtrata, il colore mi sembra l’unica via percorribile.
Che senso ha inseguire uno stile o un linguaggio? Per anni ho pensato che fosse fondamentale inseguire un proprio stile in fotografia e quindi una riconoscibilità come autore e anche che fosse una cosa complicata. Col tempo ho capito che se si acquisisce una buona capacità tecnica, si è in grado di esprimersi usando differenti linguaggi e questo aspetto mi interessava molto per la possibilità di decidere lo stile da usare in funzione della storia che si vuole raccontare. Quindi trovo interessante che sia la storia ad avere priorità rispetto al narcisismo del fotografo. Vero è però che forse non è così semplice riuscire ad esprimersi usando differenti linguaggi. Ci sono autori che per svilupparne uno hanno lavorato per decenni e quindi forse la fotografia merita più rispetto e attenzione, probabilmente è presuntuoso pensare di potersi esprimere con differenti linguaggi, si rischia di non approfondire a sufficienza un linguaggio e quindi di non aver un sufficiente grado di coscienza. E quindi cosa ha senso fare? Forse cercare uno sguardo neutro, anche se è impossibile essere neutrali, forse provare ad evitare le acrobazie formali. Credo che abbia senso lasciare spazio al contenuto in una maniera diretta, non filtrata da uno stile. Vorrei che il mio stile consistesse nel non avere uno stile ma nel lasciare spazio alle immagini e alle storie. Non mi interessa la bellezza, non la cerco più. Desidero piuttosto indagare, scandagliare e tentare di trovare qualcosa di insolito ma non qualcosa che urli, piuttosto un’idea sussurata, un nonsense di Edward Lear, qualcosa che ponga dei quesiti o faccia nascere un sorriso mentre genera una riflessione. Mi piacerebbe scattare delle fotografie apparentemente banali ma con un’idea alla base che consenta solo a chi ha voglia di soffermarsi, di coglierne il senso.
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